Internazionale intervista Monya Ferritti in un articolo dedicato ai punti di vista delle persone con background adottivo. Segue un articolo a 5 voci con molteplici punti vista.
Esistono due tipi di adozione, quella nazionale e quella internazionale. Ognuna delle due presenta le sue complessità, e ognuna, come mi spiega Monya Ferritti, presidente del Coordinamento nazionale di associazioni familiari adottive e affidatarie (Care), oggi sta cambiando molto velocemente.
Nonostante la difficoltà degli iter burocratici, l’Italia è il paese d’Europa con il più alto tasso di adozioni, seconda nel mondo solo agli Stati Uniti, in base ai dati della Commissione adozioni internazionali.
Tuttavia, quelle internazionali sono generalmente in calo ovunque, anche in Italia. Le criticità sono emerse già da diversi anni sia negli Stati Uniti sia in Nordeuropa: Belgio, Paesi Bassi, Svezia e Danimarca hanno proibito per legge l’adozione internazionale, dopo che alcuni movimenti avevano chiesto di cancellare questa possibilità, considerata colonialista e predatoria. In questi paesi la pressione delle associazioni ha portato all’istituzione di commissioni d’inchiesta che hanno portato alla luce anche numerosi casi di adozioni illegali avvenute negli anni settanta e ottanta.
Inoltre, alcuni paesi di provenienza dei bambini e delle bambine, come la Romania, l’Etiopia, la Cambogia o il Nepal hanno decretato a loro volta la fine delle adozioni dall’estero. “Se ci fosse una reale attenzione all’infanzia, andrebbero aggiustati i sistemi, non vietata l’adozione”, osserva Ferritti.
In Italia si adottano tanti bambini, molto più che in altri paesi nonostante le norme siano più restrittive e si basino su un modello di famiglia tradizionale: impossibile adottare un figlio o una figlia per una coppia omosessuale, per una persona single e anche per una coppia eterosessuale non sposata. Inoltre l’Italia, insieme al Lussemburgo, è l’altro paese europeo senza una legge che permetta di rintracciare le proprie origini genetiche. “Se tu lasci un bambino in ospedale il tribunale si attiva per rintracciare la madre. Se invece il neonato viene lasciato nella cosiddetta culla della vita non c’è questa possibilità”, mi spiega Ferritti. “Non resta che rintracciare i genitori biologici sui social network, ma in quel caso si è molto esposti e non esistono intermediazioni. Io prenderei esempio dalla legge francese, secondo cui si ha la libertà di cercare la propria famiglia biologica, e per avere aiuto ci si può rivolgere a una specifica istituzione pubblica”.
LINK all’INTERVISTA: Uno sguardo diverso sull’adozione